Insegnare con cura

(Enrica Dondero)

Il concetto di cura ha una non facile né condivisa collocazione nell’immaginario collettivo. Rischia di essere un’idea inerte nel mondo della scuola, travolta negli ultimi decenni da un lessico dominante di tipo mercantilista e neoliberista che la esclude, o da pedagogie del bisogno, che orientano lo sguardo sulla mancanza, sulla carenza. L’idea di cura assume spesso, di conseguenza, un’accezione volontaria e oblativa: chi la esercita agisce in base a una propensione personale, spesso legata all’essere femminile, senza il giusto riconoscimento da parte della società. Può essere invece entità costitutiva e segnale di vitalità di una professione che, nonostante le difficoltà, ha una parola e una funzione importanti per la costruzione di un mondo civile.

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore,
Dalle ossessioni delle tue manie
Supererò le correnti gravitazionali,
Lo spazio e la luce
Per non farti invecchiare
E guarirai da tutte le malattie,
Perché sei un essere speciale,
Ed io avrò cura di te. (F. Battiato)

Prendersi cura è un’espressione socialmente usata e anche abusata: condividerne il senso è altra cosa. Questi splendidi versi di Franco Battiato ci aiutano a focalizzarne alcune dimensioni: la fragilità e la vulnerabilità; l’inquietudine e l’accettazione; la protezione come richiesta e come dono; la premura e la relazione d’aiuto; il desiderio e il piacere di mantenere vivo un legame. È evidente come ciascuna rientri nel nostro essere parte di un’umanità, ma non necessariamente né automaticamente ne deriva una comprensione del senso profondo.
Vogliamo cominciare a interrogarci su questo tipo di esperienza? Bene, riflettiamo sui contesti in cui si realizza e, in particolare, sull’essere, in quanto insegnanti, parte di una relazione sociale complessa che si ricrea ogni giorno a scuola. Quanto è presente un’idea di cura nel pensare la quotidianità dell’aula, nelle sue situazioni, nelle sue relazioni? Nelle giornate e settimane che stiamo vivendo, in cui le routine sono stravolte da un evento imprevisto ed eccezionale come la pandemia, quanto vale il pensiero della cura e come si ricolloca?
Senza dubbio, la realtà della scuola è variegata e disomogenea. Si ha la percezione, tuttavia, che il concetto di cura non sia splendido protagonista della giornata scolastica, se non come interesse personale del singolo docente, mentre rimane del tutto residuale o limitato a qualche isola felice nel discorso del Collegio docenti e nelle sue specifiche azioni: progettazione, organizzazione della relazione apprendimento-insegnamento, valutazione.

Da dove deriva questa marginalità?

La storia della scuola degli ultimi decenni ha messo in evidenza una sua sensibile partecipazione al dettato di forze attive sul piano politico ed economico globale che ne privilegiano un’ottica strumentale, generalmente individualista, spesso competitiva: tale ottica è stata diffusa in modo sempre più pervasivo attraverso la normativa e le didattiche mainstream ed è risultata capace di limitare la visione critica personale del senso profondo del fare scuola. Tuttavia, le parole che descrivono la vita sociale sono forze capaci di orientarla e di darle forma, per cui scegliere un tipo di lessico piuttosto che un altro non è azione indifferente per il tipo di società che si va a costruire, anche nel microcosmo. La cura non è una merce e il codice linguistico che la considera come forza attiva è proprio di chi ha una visione del mondo in cui l’alunno e l’alunna sono protagonisti di una relazione di crescita, non utenti di un servizio.
Quindi, l’idea di cura è evidentemente una costruzione culturale, che spesso si materializza nell’assenza o, almeno, in una non-presenza nel contesto scolastico. Secondo Luigina Mortari, che a lungo e approfonditamente ha studiato il fenomeno, alla radice della marginalità della pratica di cura vi è un’accezione riduttiva del termine: nell’immaginario collettivo la parola cura rinvia a una funzione privata, concepita essenzialmente come parte istintiva del ruolo femminile e sottoposta alla discrezionalità di chi la esercita (peraltro, con maggiore o minore consapevolezza). Una funzione poco circoscrivibile, posizionata all’interno di un atteggiamento di maternage, esercitata da attori sociali invisibili, spesso collocati nei gradini più bassi della scala sociale. È una funzione tendenzialmente oblativa, in cui il ruolo femminile si realizza nella dedizione agli altri.
A scuola la cura è spesso intesa in senso riparativo: aggiustare qualcosa che è rotto, che non funziona; quindi, accudire chi “non riesce”, chi ha un disturbo. Ma sulla parete dell’aula di Barbiana campeggia un’espressione – I care – che sospinge il nostro sguardo educativo verso un’idea di cittadinanza, più che di pronto soccorso. Prendersi cura della persona, del soggetto, cercando di accompagnare tutti un passo avanti; posizionarsi “là dove è in gioco l’essenziale” (Mortari, p. 28), promuovere la possibilità di custodire e attualizzare nell’altro il suo essere più proprio. È la necessità di considerare la cura come attributo sostanziale e imprescindibile di un agire fondato sulla consapevolezza dei suoi fini e sul pensiero che cerca l’essenza delle cose. E non è un aspetto accessorio dell’esperienza educativa; se la nostra vita è in stretta connessione con il tipo di cura di cui facciamo esperienza, come scrive ancora Mortari, agire con cura è indispensabile alla costruzione di un mondo civile (ibidem).
Declinata in questo senso, come possiamo occuparci – anzi, preoccuparci – di cura a scuola?
Se il destinatario è il soggetto nella sua crescita personale, a noi insegnanti ed educatori tocca istituire una relazione che si ponga come base salda del processo di costruzione degli strumenti cognitivi, sociali ed emotivi necessari per condurre un’esistenza degna. È una relazione in cui la distribuzione di potere è fortemente asimmetrica: sta, infatti, tra i nostri compiti professionali la responsabilità di individuare i bisogni e le potenzialità di crescita dell’alunno e di collocarli in uno spazio, individuare priorità, definire criteri per la nostra azione e costruire collaborazioni per una maggiore efficacia. Ed è elemento costitutivo della relazione educativa – in realtà di ogni relazione – il rifiuto di esercitare il proprio potere considerando l’altro un oggetto, un’entità da controllare o da manipolare.
È una visione etica dell’altro. Anche dell’insegnante. E proprio a partire da questa convinzione, anche qui non proponiamo risposte derivanti da saperi precostituiti e standardizzati; semmai presupponiamo la figura di una/un professionista capace di osservare la propria esperienza e la situazione educativa nella sua originalità e unicità, di porsi in modo riflessivo di fronte a esse, stando dentro e fuori contemporaneamente. Allora l’approccio non può essere che di tipo maieutico: utilizzare le domande per decostruire le premesse. “La domanda, e questo è affascinante, non ha significato quando viene formulata, assume significato quando viene risposta: chi risponde deve inventare e attiva un processo di autocreazione” (Telfener, p. 114).
È l’insegnante che ha predisposto “una stanza tutta per sè”, che elabora pensiero e cultura, ma che sa andare oltre le pareti del proprio essere. Ognuno di noi, infatti, ha i suoi pregiudizi e le sue mappe che possono perturbare una visione serena delle cose.
Perchè allora non porsi di fronte all’altro, all’altra che ci affianca nel percorso professionale? Si può costruire una comunità di cura che si interroghi reciprocamente, per mettere in campo nuove connessioni e idee e per decostruire quelle in corso e non più soddisfacenti: “Fare domande è un processo attivo che apre un’indagine collaborativa, partendo dal presente e facendo incursioni nel passato e nel futuro” (ibidem, p. 115).

Proviamo.

  • Cosa significa per me relazione di cura?
  • La cura è diritto dei nostri alunni e delle nostre alunne?
  • Come posso fare per individuare i bisogni e le potenzialità di ogni alunno, di ogni alunna?
  • Considerato che le mie risorse non sono illimitate, quali sono i bisogni vitali, da prendere assolutamente in considerazione?
  • C’è un investimento affettivo da parte mia? Come gioca nella relazione di cura?
  • C’è differenza tra esercitare cura a livello familiare e a livello istituzionale?
  • Cosa distingue il voler bene all’altro dal volere il bene dell’altro?
  • Come insegnante, ho un potere che non va negato, ma che devo riconoscere:
    come posso esercitare il mio potere e nello stesso tempo far crescere l’altro (ad esempio, alunne e alunni difficili, sfidanti)?
  • Come reagire in ottica di cura quando l’atteggiamento dell’altro/dell’altra mi mette in discussione o fa avvertire direzioni impreviste?
  • E’ possibile, nel mio contesto professionale, realizzare una comunità di cura?
  • Quanto è importante per me come professionista l’aver cura? Quale vantaggio o guadagno d’essere deriva a me insegnante, a noi, dall’aver cura?

Questa riflessione iniziale sulle pratiche di cura in ambito scolastico ci può, forse, sostenere nella ridefinizione e nella condivisione del concetto, che Luigina Mortari così esprime: “La cura è una pratica che ha luogo in una relazione in cui qualcuno si prende a cura un’altra persona, dedicandosi, attraverso azioni cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche, alla promozione di una buona qualità della sua esistenza” (Mortari, p. 55)
Anche della nostra, in quanto insegnanti che elaborano pensiero, che hanno consapevolezza della propria forza trasformativa e che dell’esistente non intendono accontentarsi.

Riferimenti bibliografici

L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano, 2006
U. Telfener, Apprendere i contesti, Raffaello Cortina, Milano, 2011